Anno 2009, mio padre, il mio mito assoluto, muore dopo due anni di atroci terapie e ricoveri. Un dolore da non dovervi spiegare.
Il 17 Luglio i funerali e al prete della chiesa, rincoglionito quanto basta, ad certo punto della predica, gli cade la dentiera mentre alza le mani al cielo. Se la sistema come nulla fosse "con lo spirito Santo" e il pollice in bocca. Mi volto lentamente e dietro vedo i miei amici, quelli che si contano sulle dita di una mano, tentare di soffocare le risa. Col labiale mi chiedono scusa, si danno gomitate e si tappano la bocca con le mani. Ma c'é un problema, rido pure io. Sì, io. Per 30 secondi mi sono sentita di nuovo umana, nella mia comfort-zone che nulla toglieva a me, né a mio padre di cui sono la replica. Avrà di certo riso pure lui. La morte è un problema dei vivi.
Ci penso spesso in questi giorni, soprattutto quando qualcuno scrive che bisogna avere rispetto per chi è ricoverato, intubato, pluripatologico, immuno e depresso; per chi preferisce il silenzio o per chi ha bisogno di calma per uccidere i coronavirus a uno a uno a colpi di amuchina, perché con i flashmob si sta esagerando, giacché la modalità uccello del malaugurio è più consona.
Io invece ieri, a sentir l'inno nazionale mi sono emozionata, mi rallegrava vedere gli anziani soli del quartiere, affacciati dai loro soggiorni, in cerca di un saluto e un sorriso. Perché ridere è una cosa seria e soprattutto rinforza le vostre difese immunitarie.
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